Ma qui tutto è diverso, i maglioni sono di troppo, le tante giacche tenute con fastidio sopra il braccio sembrano inutili mute di palombari fuori dall'acqua, l’aria è finalmente pulita e il cielo non è più nascosto dalla densa coperta di nubi italiane.
Il nostro albergo è all'interno della Medina, il taxi ci ha scaricati in mezzo ad una piazza
chiassosa con vecchie auto parcheggiate e cavalli che trainano alti calessi,
cocciando rumorosamente con gli zoccoli sulla strada.
Subito siamo stati
accolti da inservienti Marocchini magrissimi che sembravano scomparire sotto al
peso del carretto sommerso dai nostri valigioni. Per arrivare all'albergo ci
hanno fatto fare un giro lunghissimo perdendosi più volte tra i vari vicoli e
zigzagando tra i motorini e le biciclette che qui sfrecciano a velocità
improbabile tra la folla di pedoni e venditori.
Finalmente ecco
l’albergo, un luogo delizioso, poche camere in stile arabo che si affacciano su
un piccolo cortile interno, con divani e tavolini in ferro battuto che, come nelle
grate alle finestre e le ringhiere dei balconi, disegna figure geometriche
simili a fiori stilizzati.
Nell'aria l’odore forte
del tè alla menta e delle focacce appena sfornate.
Il tempo qui a Marrakech
sembra essersi fermato, per strada poche macchine e il consueto traffico al
quale siamo abituati è sostituito da muli e cavalli che camminano a passo
d’uomo, la piazza principale è gremita di turisti e capanicoli di persone che
guardano incuriositi i vari incantatori di serpenti, scimmie ladre e quant'altro.
Vorrei dire che l’aria
che si respira è quella leggera di festa, ma qui, come in tutte le grandi città
la base di tutto è il commercio, gli affari e anche le truffe ai danni dei
turisti ingenui. Basta fare l’errore di affidarsi ad una guida locale per
girare la città, che i prezzi dei vari negozi improvvisamente aumentano di 100
volte e non esagero.
Il Suq, il mercato
tipico, è molto vario, vi si trova veramente di tutto, dai tappeti alle spezie
profumatissime, agli abiti, alla pelle lavorata magistralmente dai sapienti
artigiani e la contrattazione è lo sport nazionale. Anche per gli articoli più
economici il tira e molla dei prezzi dura diversi minuti e termina,
apparentemente, con la soddisfazione di entrambe le parti, almeno finché non si
scopre di essere stati raggirati e spesso accade.
Indubbiamente sono
molte le cose da vedere, i giardini, la moschea, le sartorie, ma la cosa più affascinante
è la piazza principale che di notte si popola ancora più che di giorno e le
tante luci delle bancarelle e dei ristorantini improvvisati fanno da cornice
surreale ad un tempo lontano, ornato da odori e rumori ai quali non si è
abituati e che portano i sensi in una nuova, strana dimensione.
Mirleft,
abbracciati dall’oceano
Dopo un paio di giorni
è ora di lasciare Marrakech per iniziare ad avvicinarci al deserto, la tappa
successiva è Mirleft, un paese berbero che si affaccia sull'oceano,
nell’interno due sole strade costeggiate da case blu e ristorantini accoglienti
che emanano i più deliziosi profumi e alcune villette a ridosso della
bellissima e ampia spiaggia.
Il caos della città con
tutti i suoi commercianti è lontano, qui la vita si muove pigra e gentile. Nel piccolo mercato e nei negozietti i prezzi
bassi sono quello che sono, senza doversi consumare in estenuanti trattative;
la cosa che più colpisce è che tutti sembrano essere una grande famiglia, lo
stesso bellissimo ragazzo berbero vestito di blu che ci ha aiutati a trovare un
economicissimo appartamento, lo ritroviamo la sera che serve nel ristorantino
dove ceniamo e poi a vendere artigianato locale per strada e qui fanno tutti
così, si aiutano, sorridono tra di loro come a noi, ci accolgono e ci fanno
sentire a casa in un istante.
Partendo per questo
viaggio non immaginavo che il Marocco fosse così vario nei paesaggi e
soprattutto così verde, nel tragitto in macchina per arrivare a Mirleft abbiamo
attraversato prati fioriti, colline verdi, pareti scoscese di terra rossa, corsi
d’acqua con piccole cascate e sullo sfondo le montagne innevate. E adesso
l’oceano!
Giovani, marocchini e stranieri, che fanno surf sulle lunghe
disordinate onde, cani apparentemente selvatici che ci accompagnano in giro per
tutto il paese e fino al mare e poi si accoccolano vicino a noi come a farci da
guardia, gruppi di ragazzini che usano la larga spiaggia come campo da calcio e
pochi turisti sdraiati al sole che si fanno cullare dall’aria salmastra e
abbracciare dall'oceano. Che luogo dolce.
L’ospitalità del popolo
berbero è disarmante, per loro condividere ed offrire quello che hanno, anche
se è poco, è un gesto naturale al quale non si sottraggono mai.
In un piccolo
triangolo di sabbia protetta da una scoscesa roccia dalla quale siamo scesi a
fatica, abbiamo trovato alcune baracche poverissime con un paio di giovani
pescatori che sembravano studiarci con visi dubbiosi… ed invece, dopo aver
sfidato le onde con una barca improbabile per radunare un po’ di pesce, sono
venuti da noi camminando come trapezisti in bilico sugli scogli, per offrirci
un delizioso tè nero ed invitarci a cenare conn loro onorando la pesca della
giornata.
E così non ci siamo sorpresi quando una sera, in paese, siamo stati
invitati ad una festa di compleanno nella casa di persone appena conosciute.
L’abitazione spoglia
era anticipata da un piccolo cortile altrettanto disadorno, con diversi
tavolini bassi circondati da tappeti e cuscini. Abbiamo mangiato tutti insieme
con le mani attingendo da un unico grande tajine, come se fossimo tutti una
famiglia, tutti un unico popolo, tutti in fondo solo persone.
Un
deserto fuori dal comune
Ci spostiamo con un bus
fino a dove termina la strada asfaltata per poi salire su un fuoristrada
stipati come sardine.
Ed eccoci all'accampamento che ci ospiterà per le prossime settimane. Le tende berbere nelle quali mangeremo sono già montate, adesso tocca a noi montare le tende da campeggio che saranno la nostra casa.
Ed eccoci all'accampamento che ci ospiterà per le prossime settimane. Le tende berbere nelle quali mangeremo sono già montate, adesso tocca a noi montare le tende da campeggio che saranno la nostra casa.
Anche questo luogo è
del tutto diverso dalle aspettative, dopo 25 anni di siccità, le ultime
incessanti piogge lo hanno reso un giardino fiorito, tutto è verde, tutto è un
bocciolo, tutto è un profumo, è come se la natura ci avesse voluto accogliere
preparandosi a festa, come se questi fiori fossero qui solo per noi, pronti a
ricordarci la bellezza della vita oltre il cemento, oltre la routine, oltre le
certezze.
La decisione di venire
nel deserto era stata dettata dal bisogno di staccare la spina, di ritrovare
ritmi dimenticati e gesti autentici, ma ancora non sapevamo quale importante
avventura ci attendesse.
Siamo un gruppo numeroso ma in realtà ognuno è qui per se stesso, qui non c’è altro, solo noi, non ci
sono comodità di alcun tipo, nessuno ha qualcosa di più o qualcosa di meno
degli altri, siamo tutti uguali al cospetto della natura.
Qui, lontano dalla
città e dagli schemi della società, si possono lasciare tutte le
identificazioni che ci hanno sempre convinti di avere un valore solo grazie
alle cose realizzate e di essere importanti solo se qualcuno ci diceva bravo.
Qui siamo solo persone, senza nome, senza radici, senza distrazioni per la
mente. Vogliamo lasciar andare il passato, ecco cosa siamo venuti a fare.
E come sempre quando si
chiede qualcosa l’esistenza, lei subito ci accontenta. Non bastava aver
lasciato tutto alle spalle, le comodità, le sicurezze, le etichette, fin dalla
prima sera un vento fortissimo ha iniziato a soffiare e ha spazzato via tutto,
le tende berbere in cui avremmo dovuto mangiare, molte delle tende in cui
dormivano, un messaggio forte e chiaro del dover lasciare veramente tutto.
Non
si sa dove stare perché il vento è incessante e violento e l’unica struttura in
muratura sono i bagni, così le giornate vengono scandite dai pasti consumati
davanti ai lavabi, fino al momento di tornare in tenda con il timore che ci crolli
addosso durante la notte.
E siamo qui, in mezzo
al deserto che deserto non è, senza avere nulla che ci ricordi di avere una
dignità, mangiando in mezzo alla terra che continua ad alzarsi e a coprire
tutto, seduti su lavabi con al fianco qualcuno che mentre mangiamo si lava o fa
il bucato e ormai è normale così, nemmeno ci si fa più caso.
A casa ci si preoccupa
di come si è vestiti, quando ci sediamo sulle panchine all'aperto controlliamo che siano pulite, quando qualcosa ci macchia gli abiti ci sentiamo a disagio all'idea che qualcuno possa notare questa grave imperfezione. Qui invece ci sediamo dove capita, senza pensare a come siamo vestiti o pettinati o se ci sporcheremo,
ogni luogo è buono per sedersi e parlarsi ed ascoltarsi, ma ascoltarsi davvero,
anche per terra, su quella stessa terra su cui si dorme, che ha invaso la
tenda, il sacco-pelo, i vestiti, la mente.
Quando non si ha più
niente da perdere, niente da difendere, niente da giustificare, nessuna
immagine da sostenere, si comprende il vero significato della parola libertà. Quanto
è facile abituarsi, anche al nulla.
Il vento cessa, le
tende si rialzano, si sorride ora come si sorrideva nel vento e, togliendo
tutte le maschere che di solito indossiamo, le case, le auto, i bei vestiti, i
cellulari, spogliati di tutto, sentiamo quanto alla fine siamo veramente tutti
uguali, tutti un’anima sola. Ci specchiamo nel viso di chi ci sta vicino e in quel
viso riconosciamo noi stessi e comprendiamo che, se anche non abbiamo niente siamo
ancora qualcuno, qui nel deserto percepiamo tutto il nostro valore per il
semplice fatto di esserci, di esistere.
Non è possibile
prevedere quello che accadrà nella vita, non ha senso cercare di controllare
tutto e noi stessi. Vivere con leggerezza, con la fiducia che l’esistenza è
sempre pronta a sorreggerci, ecco cosa abbiamo imparato da questa terra forte
ma dolce.
Non importa dove siamo, cosa facciamo o cosa possediamo, se sappiamo
chi veramente siamo, se sappiamo quanto profondamente valiamo, anche quello che noi chiamiamo deserto si spalanca in un
giardino fiorito.
di Georgia Briata
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